Un ascolto puņ diventare un incontro

Un ascolto può diventare un incontro. Un incontro può diventare un pensiero. Ciò che può diventare un pensiero è la misura del senso di ciascuno di noi.
Alle 20.00 di ieri, giovedì 22 luglio, Yervant Giainikian & Angela Ricci Lucchi hanno parlato, a Palermo, al pubblico del festival “Sole Luna”.
Alla felicità di questo incontro dedichiamo un approfondimento tratto da un sito “denso e fecondo”:http://www.jgcinema.com**


Jura Gentium – Vorrei partire dalla cinematografia classica sulla Grande Guerra e in particolare dal film di Stanley Kubrick "Orizzonti di gloria". C’è una notevole distanza tra il lavoro che può fare Kubrick sulla “rappresentazione” della guerra e il vostro, che è piuttosto il “racconto” della guerra. E tuttavia voi non vi definireste 'documentaristi'…

Angela Ricci-Lucchi – No, documentaristi appunto non direi. Usiamo dei documenti ma non siamo documentaristi. In questo nostro film Prigionieri della guerra (1996) abbiamo utilizzato dei materiali di propoganda degli eserciti che si contrapponevano. Sono prigionieri Austriaci in viaggio verso la Siberia, sono esibiti a Mosca come trofei di guerra viventi, nel 1914. L'esercito zarista faceva sfilare sfilare più volte gli stessi gruppi di prigionieri per dare un'idea maggiore di quantità. I prigionieri cercavano a loro volta disperatamente di usare questi documentari, mettendosi in evidenza, sventolando qualcosa, gesticolando, sperando che qualcuno poi a casa (chissà come poi…) li avrebbe potuti vedere e riconoscere (in realtà questi film non sono mai usciti dagli archivi).

Yervant Gianikian – Noi rileggiamo i documenti. La nostra è una rilettura, una decodificazione della storia. E perfino della “propoganda”, se vogliamo…

JG – Quindi, in un certo senso, la rappresentazione della guerra la fanno gli stessi prigionieri e le persone che “abitano” questi materiali d’archivio.

R.-L. – Proprio così. Ad un certo punto, per esempio, si vede che sventolano tutti qualcosa sorridendo, come se volessero dire: «Per noi la guerra è finita, siamo prigionieri»; non sapevano che la loro odissea incominciava proprio in quel momento. Perché poi di questi prigionieri (noi non lo diciamo) ne son tornati veramente molto pochi a casa. Sono stati usati in Russia contro i bolscevichi, ne hanno fatto un esercito in Cina; sono tornati attraverso l'America, girando tutto il continente; hanno avuto delle vicende terribili. Moltissimi sono morti per il freddo, la fame, le malattie.
G. – A proposito del rapporto fra finzione e documentazione, Varlam Salamov ha cercato ad esempio di “rappresentare” il gulag in 'I racconti della Kolyma'. Ma erano giuste le critiche che Lev Razgon, lo scrittore sopravvissuto al gulag, ha narrato in ‘La nuda verità – il romanzo della vita offesa’. Egli sostiene che il gulag di Salamov è solo romanzo e che lui, invece, “faceva” veramente il gulag. Ecco, noi pensiamo, come esempio, a Razgon. Non ci interessa la fiction ma la complessità della realtà, anche se viene fatta dalla propaganda che noi cerchiamo di smontare.

JG – Ecco, fino a che punto è possibile riuscire a “smontare” l'elemento della propaganda, che, immagino, deve essere particolarmente invadente nei reperti degli archivi storici cinematografici? In che modo usate le immagini per decostruire la rappresentazione preconfezionata della guerra?

G. – Ci serviamo, ad esempio, di immagini rallentate, di un’analisi in profondità dei fotogrammi... Perché è proprio con l’analisi dei particolari, dei dettagli, con la concentrazione sulle zone marginali dell'immagine che si offre il tempo a chi vede di riflettere.
R.-L. – Cerchiamo di costringere lo spettatore a riflettere “dentro” la situazione che mostriamo… Ecco perché ci vuole uno sforzo per seguire e per fare una lettura personale delle immagini. Noi cerchiamo di restare più distanti possibile da questa operazione.

JG – Tutto ciò può favorire anche una prospettiva di cinema inteso come memoria, memoria storica e della guerra. Molto spesso, invece, il rischio è che la "rappresentazione" della guerra costringa la riflessione entro i limiti del film. In che modo, allora, il passato della guerra può veramente rivivere attraverso il cinema? Soprattutto oggi, nell’epoca della globalizzazione e della ipertrofica produzione di immagini che si accompagna, però, a una difficoltà sempre maggiore di “conoscere” veramente la guerra presente e le verità storiche sulle guerre passate?

R.-L. – Forse, appunto, proprio questo “sforzo” di fare una lettura completamente diversa rispetto a quella che può aver dato origine a questi materiali è una buona prospettiva. Più in generale, la nostra speranza è che la gente rilegga, decodifichi i messaggi che riceve continuamente, ad esempio attraverso la televisione. Prendiamo la situazione attuale in Iraq. Un esempio concreto è stato proprio la tragedia dei carabinieri vittime dell’attentato a Nassirya: si sono viste queste bare, e forse dentro non c'erano dei carabinieri ma solo dei pezzettini! Cioè, quello che abbiamo visto sono queste “belle” bare lucide (belle in senso lato). Però di tutto quello che c’era dietro questa storia non ci viene detto niente. Solo fanfare, bandiere e fiori. E' stato un gran teatro; usato un pò da tutti, sia da una parte sia dall'altra, secondo le più diverse convenienze. Ma il dramma vero non è venuto fuori. La gente dovrebbe cominciare a chiedersi i perché, senza accettare immediatamente le cose…
G. – E siccome la storia si ripete continuamente, l’archivio ci serve per proporre questo ritorno nel presente.
R.-L. – La cosa tragica è che della prima guerra mondiale, che è stato uno spartiacque di incredibile importanza per quanto riguarda le tecniche di guerra, la quantità di vittime, le migrazioni di popolazioni, non ci è stato detto niente, le verità non sono state ammesse da nessuno. E anche oggi, con le guerre contemporanee, tutto continua a ripetersi in maniera inesorabile, nello stesso modo, con le stesse dinamiche.

JG – In effetti il problema sembra proprio questo: il cinema, nel contesto della “guerra globale”, cosa dovrebbe raccontare veramente per far capire, cosa e come dovrebbe documentare? Il grande circuito mediatico sembra bloccare questa possibilità.

G. – Certo! Proprio perchè nel grande circuito mediatico la guerra viene sempre più nascosta. C’è davvero la censura. Perchè quello che tutti possiamo notare è che la televisione, nonostante le sue grandi potenzialità e la sovrapproduzione di immagini (tenendo conto anche dei progressi tecnici, del fatto, ad esempio, che ora si può girare anche di notte e senza luce), dovrebbe poterci mostrare tutto; poi però queste immagini non si vedono, se non direttamente di persona da una camera di un albergo su di una piazza. Non c'è affatto, in questo, una “globalizzazione”; anzi c'è una chiusura e una censura incredibilmente efficace.
R.-L. – Ciò che si vede sempre sono tante belle lucine verdi e rosse che “schizzano” sullo schermo e poi, alla fine, delle bare; e però non si vede tutto quello che c'è tra le lucine e la bara. Tutto questo non lo vedi!

JG – A partire dal film di Kubrick, vorrei proporvi un’altra riflessione. Kubrick ha scritto: «A prescindere dal suo orrorre, la guerra è una forma drammatica pura, è una delle poche situazioni che ancora restano nelle quali gli uomini prendono apertamente posizione a favore di quelli che essi credono i loro principi. Il criminale e il soldato hanno almeno il pregio di essere a favore o contro qualche cosa, in un mondo nel quale molta gente ha accettato una specie di nulla grigio adottando una serie di comportamenti illusori che tuttavia considera normali». Alla luce di questa considerazione, ma anche nell’ottica del vostro film, non dovremmo forse sentirci tutti «parte della guerra» e (oggi ancor più che in altre epoche) «prigionieri della guerra»? È ancora possibile, o addirittura desiderabile, oggi “tirarsi fuori” dalla guerra?

G. – Noi abbiamo raccolto punti di vista e di comprensione molto differenti della guerra, vista ad esempio da gruppi diversi, occidentali, orientali, asiatici, est-europei, mediterranei. La faccenda è estremamente complessa. Quando abbiamo finito questo film nel 1996, lo abbiamo portato nella ex-Jugoslavia, da Trieste fino a Nova Gorica. A Sarajevo, poi, ha avuto un’accoglienza complessa, perché c'erano delle immagini che disturbavano un pubblico che aveva appena vissuto una situazione estremamente pesante. A Zagabria abbiamo fatto una proiezione dove le difficoltà erano di altro tipo, perchè c’era la polizia in sala. Era stato detto, infatti, che c’erano dei materiali contro i croati. È stata una proiezione drammatica, che a un certo punto volevamo interrompere perché non si poteva più andare avanti. Nella sala di Belgrado, invece, da parte opposta: il film, è stato visto con grande sospetto e con interventi di censura, perché tutti gli studenti non sono stati fatti entrare. Abbiamo chiuso poi con Lubjana dove si parlava soltanto delle mine occidentali vendute agli Slavi. Perciò ognuno ha visto il film dalla parte che voleva… Mi domandi se siamo prigionieri della guerra. La visione è molto complessa. In questi posti la guerra era finita da pochissimo. Ma praticamente non è mai finita e anche noi siamo stati coinvolti in prima persona. Questo perchè una guerra è sempre più una prova generale per altre guerre.

JG – Cosa altro vi è rimasto della vostra esperienza nella ex-Jugoslavia?

R.-L. – Ricordo i ragazzi che avevano combattutto in prima linea. Come ci raccontava un ragazzo, si combatteva di casa in casa. Lui stesso sparava contro il suo amico che stava nella casa di fronte. «Pensavo – ci ha detto – che la prima guerra mondiale fosse una cosa lontana, remota, che stava nei libri di storia, e poi mi sono accorto che anche lì gli uomini che erano in guerra sono solo dei numeri, non hanno più identità». L’attualità delle nostre immagini era confermata da coloro che la guerra la stavano facendo.
G. – Anche perché poi le immagini arrivano in certi luoghi e non in altri. E questo film è servito, in un certo senso, a completare quello che i russi non avevano visto fino agli anni novanta di quello che era successo ai 'loro' in Austria e in Germania. Ma è servito anche, in Occidente, a mostrare quello che era successo in Siberia.

JG – Una grandissima attenzione, appunto, la riservate ai prigionieri di guerra. Cos’è per voi, innanzitutto, il prigioniero di una guerra? È ancora un soldato, è “soltanto” un uomo, o cosa altro?

R.-L. – E' un vinto, vinto in tutti i sensi. Uno senza più una sua identità, sbattutto qua e là: un vero prigioniero, nel senso proprio del termine! E infatti anche nel film si vedono questi enormi spostamenti, questo peregrinare, questo vagare di prigionieri che poi alla fine non si sa più dove sono, se verso la Siberia, o la Cina, o la Galizia.
G. – Sono in qualche modo dei migranti. E diventano una preda che viene giocata come conviene. La prima cosa è l'esibizione della preda: nel film ci sono questi 100.000 prigionieri austriaci che vengono fatti sfilare a Mosca, perchè più è alto il numero dei prigionieri, più ricca è la preda, più sono grandi l'esercito e l’impero che l’ha conquistata.

JG – Beh, d'altra parte basta pensare al racconto della "tregua" di Primo Levi, del suo viaggio di ritorno a casa, e a tutti gli incredibili viaggi di quelle masse enormi di profughi, di prigionieri, di sfollati che continuavano ad essere mandate dappertutto in Europa. Ancora non si è capito bene il perchè (nemmeno Levi riusciva a capirlo!), e tuttavia ordini provenienti chissà da dove e da chi imponevano che si continuasse a vagare...

R.-L. – Ho riletto proprio di recente il diario di un prigioniero. Sembra che, a un certo punto, lui e suoi compagni non sappiano più cosa fare, anche perché in Russia sta scoppiando la rivoluzione. E il loro comandante, l'ultimo ufficiale che avevano, non sapeva più cosa dire loro, quali indicazioni dare. Poi, all’improvviso, un console francese li acchiappa e li porta (ma solo una parte) molto lontano, fino a Pechino. Per rientrare li fanno viaggiare per tutto il Pacifico, fino a San Francisco. Da San Francisco attraversano tutta l’America (non c'erano certo gli aerei) e l'Atlantico, e tornano dopo anni e anni, sopravvissuti a questa odissea.

JG – Viene spontaneo pensare alle guerre attuali. All'inizio vengono mostrate grandi masse di profughi, ad esempio i curdi, che si spostano, cercano di passare le frontiere. Si vedono un giorno, due giorni…Poi non si sa più dove vanno né dove finiscono!

G. – Queste immagini ricordavano i prigionieri della ex-Jugoslavia, che ricordavano a loro volta quelli della seconda guerra mondiale, dei gulag e dei lager.
R.-L. – Nei Balcani ci sono proprio queste masse, perchè i prigionieri di guerra sono soprattutto civili. E quando noi eravamo nei Balcani la gente ci diceva: «Ma nel vostro film avete davvero anticipato tutto, perchè vediamo adesso quello che succedeva ai civili, queste migrazioni di popolazioni intere, sbandate, senza più una casa, un riferimento». Questa è la loro memoria, una memoria che deve tornare, deve! E bisogna favorirla, perché è attuale, tutto purtroppo è attuale. Ecco perchè diventa importantissimo lavorare su questi diari dei sopravvissuti e di cui ci serviamo. C’è una pagina di Gadda, che ha fatto la prima guerra mondiale e ha scritto diversi libri su questo, in cui dice che «la verità non è nei libri di storia, ma nei diari, anche di chi non è sopravvissuto».
G. – Nei diari e nelle lettere, soprattutto in quei documenti che non sono stati toccati né trascritti da nessuno.

JG – Nelle immagini dei prigionieri quello che colpisce forse di più è la confusione. Scompare, cioè, la logica soldato/soldato, amico/nemico: è come se fossero tutti una preda unica. Scompaiono, a quel punto, le appartenenze, i nazionalismi... Viene da ripensare, ad esempio, alla scena finale di "Orizzonti di gloria", dove si vedono quei soldati francesi, dimessi e battuti, che ascoltano e cominciano a intonare anche loro la canzone della giovane prigioniera tedesca, un canto che sembra unificare e comprendere tutti in un triste e comune destino. E' la spersonalizzazione del soldato. Il soldato che non sente più di rivestire un ruolo e di avere nemici.

R.-L. – Sì, infatti le divise dei prigionieri che si vedono nel film sono ormai tutte logore, senza più neanche le mostrine. E poi anche loro, i prigionieri della prima guerra mondiale, parlano dei russi (e degli abitanti dei villaggi dove loro erano in prigionia), e ne parlano senza avere assolutamente il senso di trovarsi di fronte a dei nemici, ma a delle persone, magari dai costumi molto bizzarri, però senza nessun odio, anche perché, alla fine, vivevano la stessa miseria e lo stesso freddo.

JG – Per concludere, qual'è invece il vostro sguardo sul mondo attuale, sull’epoca contemporanea?

G. – Abbiamo una visione decisamente catastrofica. Abbiamo percorso questo secolo – il secolo della violenza – fin dall'inizio. A partire dalla prima guerra mondiale abbiamo cercato di risalire nel tempo. Il nostro progetto è questo. Adesso chiudiamo la trilogia della prima guerra mondiale con un film dedicato al dopoguerra, alle conseguenze della guerra, che sono poi conseguenze generali di tutte le guerre. Ed ecco perchè ci siamo occupati anche di altri temi, fin dall'inizio; temi che, appunto, riconfermano questa violenza che percorre tutto il secolo e arriva fino ai nostri giorni, sempre uguale a se stessa. In altri lavori abbiamo parlato dell’orientalismo, cioè del colonialismo, che preparava anch’esso la prima guerra mondiale e tutte le guerre a venire, compresa l’ultima!
R.-L. – Anche perchè adesso assistiamo al colonialismo contemporaneo. Di fatto anche noi siamo colonizzati. E a proposito di colonialismo, l’anno scorso abbiamo fatto un’installazione in un museo olandese sugli Aborigeni Australiani; l'abbiamo chiamata Terra nullius, perchè quando gli inglesi arrivarono in Australia, un anno prima della rivoluzione francese, dichiararono appunto l’Australia terra nullius. Le conseguenze di questa "dichiarazione" si sono protratte addirittura fino al 1992. Infatti questa idea aveva assunto, a un certo punto, forza di legge. Un governo meno peggiore degli altri l’ha abrogata, ma poi sono state istituite altre clausole legislative in base alle quali gli australiani originari sono proprietari del suolo ma non del sottosuolo. E mi sembra che anche quello che succede in Afghanistan o in Iraq abbia a che fare col concetto di
¼terra nullius

Pisa, 16/12/03

* Desidero ringraziare il Cineclub Arsenale di Pisa e in particolare Camilla Colaprete per l’aiuto nella realizzazione di questa intervista
 
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